IL MISTERIOSO SITO DEL PROF. GIUSEPPE FASSARI

Il fato dell'uomo nel tempo e nell'immaginario

Il mistero di una gita domenicale

Il mistero di una gita-racconto di G. Fassari

Non mi è stato facile mettere per iscritto la mia esperienza perché nutro forti remore sull’attendibilità che la gente le darà, mentre, per quanto mi riguarda, non ho alcun dubbio sulla sanità della mia mente che l’ha vissuta, anche se ancor oggi rifletto sul significato di quelle insolite emozioni.

La vicenda ha permeato e condizionato tutta la mia vita a venire, indicandomi strade e progetti che seppur sentissi profondamente miei appartengono all’umanità intera.

Alla luce di ciò non ho mirato a nessun possesso o potere, vivendo nella semplicità e nella sufficienza, tanto che oggi possiedo solo quest’umile giaciglio e forse l’apprezzamento degli uomini e di tutto quanto respira su questo pianeta.

chiesetta Il mistero di una gita domenicale
Anche una semplice chiesetta può essere un santuario

Userò la prima persona perché mi consentirà di riportare meglio i particolari nonostante la mia memoria, con il sopraggiungere della tarda età, non sia più lucida e puntuale come all’epoca dei fatti. Ho deciso inoltre di scriverla poiché voglio che, quando non sarò più di questa terra, il mio segreto si riveli a tutti.

Era l’estate del 1994 e faceva un gran caldo nella mia città, Catania. A quei tempi essa offriva parecchio, compreso lo splendido mare che si faceva scegliere tra le coste sabbiose e dorate della Playa e i neri scogli basaltici della riviera dei Ciclopi, che si estendeva in direzione di Messina, partorita dal vulcano Etna nelle sue numerose eruzioni.

Io amavo soprattutto la lunga striscia di sabbia chiamata Playa, che si estendeva a sud della città, in direzione Siracusa, dove i catanesi e i vicini paesani prendevano l’abbronzatura tra una partita a tamburello e un “caciarone” bagno. Le granite al limone andavano a ruba come il due pezzi sempre più ridotto.

Una domenica diversa

Era arrivata un’altra domenica e con alcuni amici avevo progettato una gita in luoghi più freschi.

Ci ritrovammo alle ore 7.00 in piazza Verga, posto tipico di appuntamento per gitanti: io sono Dario, con Placido e Pietro, equipaggiati di tutto punto, salimmo sul pullman, speranzosi di passare una bella giornata lontano dalla canicola catanese.

Ero in ferie da una settimana, l’ufficio anagrafe dove lavoravo aveva serrato le porte e me la spassavo, alzandomi tardi la mattina e andando a letto in ore da lupi. Avevo anche preso dei chili grazie ai manicaretti di mia madre e delle sue complici, le mamme di Placido e Pietro. Eravamo amici per la pelle e ruotavamo attorno alle nostre mense come un corpo unico e posso affermare che ci somigliavamo molto per mentalità e livello culturale. La differenza era in campo affettivo, poiché i miei amici erano da anni legati sentimentalmente a due belle ragazze conosciute sui banchi di scuola. Io invece ero ancora single alla non tenera età di trentaquattro anni. In verità avevo avuto delle storie, alcune delle quali anche belle, ma si erano presto sgonfiate per stanchezza di una o dell’altra parte. Adesso erano tre anni che non stavo con nessuno e la solitudine cominciava a farmi dei brutti scherzi, specie in quei maledetti sabati quando mi dovevo accodare alle coppie Placido e Pietro o piazzarmi davanti alla TV ad alienarmi con qualche varietà di dubbio interesse. Era sempre più difficile allargare il giro poiché i giochi erano fatti e chi aveva saputo partecipare fruiva dei risultati mentre chi, come me, era rimasto fuori, poteva solo leccarsi le ferite.

Gli amici

La gita aveva un particolare interesse come modo per uscire dalla routine domenicale e perseguire la strada dell’avventura.

A giudicare dall’entusiasmo con cui Placido e Pietro avevano aderito all’iniziativa, evitando di coinvolgere le loro metà, dedussi che i loro rapporti fossero in crisi e giunti al capolinea. L’ipotesi trovava conferma nelle loro continue lamentele.

“La mia è una storia cristallizzata, mummificata sulla tomba dell’abitudine” mi disse Pietro.

Anche Placido da qualche tempo mi sembrava stufo della sua relazione.

La compagnia sul pullman non era molto interessante per la prevalenza di coppie ultrasessantenni, desiderose di divertirsi ma che non facevano presagire nulla di buono. Ci collocammo in fondo e ci sorbimmo “Quel mazzolin di fiori…” e una scaletta di brani usciti da un passato per noi sufficientemente remoto.

L’organizzatore della gita era un mio amico e nel corso di una cantata generale ci venne a ridosso sorridente.

“Ragazzi non temete, sugli altri pullman c’è roba interessante!” esclamò. “Tra un quarto d’ora arriviamo; su col morale!”.

Quelle parole furono terapeutiche ed ebbero il potere di sollevarci l’anima fino a farci coinvolgere nei canti folk che impazzavano sul pullman.

Il mezzo saliva lungo i tornanti verso il paesino di Vena sul versante nord-orientale dell’Etna ed io avvertivo un leggero malessere, una sorta di nausea mista a vertigine.

Per fortuna dopo un lungo rettilineo delimitato da altissimi platani, arrivammo alla prima destinazione.

Pausa

Il capogruppo richiamò l’attenzione dei passeggeri dei quattro pullman che nel frattempo erano scesi in un grande spiazzo asfaltato.

“Attenzione” disse con voce stentorea. “Qui facciamo una pausa di mezz’ora; potete usare i servizi del bar ma raccomando puntualità, abbiamo ancora strada da fare !”

“Maledizione” pensai. “Ancora strada… ma dove eravamo diretti?” Placido disse che sarebbe rimasto sull’autobus mentre Pietro ed io ci incamminammo verso il bar.

Subito notammo con piacere che la popolazione degli altri pullman non era vetusta e macilenta come la nostra e simpatica ragazza erano sciamate nel grande spazio. A guardarle bene non erano per niente male, anzi!

Il bar era stracolmo di persone e l’idea di fare la fila non mi allettava molto, cosicché fui ben contento, assieme a Pietro di consumare il pacco di cracker che mi ero portato da casa.

“Accidenti, si sono tutti sbriciolati fino farina!” dissi lamentandomi.

Pietro si mise a ridere prendendomi in giro come consueto quando manifestavo i piccoli guai della mia approssimazione e, in effetti, non potevo trovare un migliore rifugio per i miei cracker invece della tasca posteriore dei jeans?

Mentre avvenivano tali banalità domenicali, scorsi un gruppetto di ragazze che si consumavano dei biscotti inframmezzando canzoni di Baglioni e Ramazzotti; una di loro, la più grande in apparenza, cercava di accompagnare con una chitarra, senza, per la verità, risultati apprezzabili.

“Quella sua maglietta fina…” di baglioniana memoria era stata degradata musicalmente a una successione di sbilenchi accordi coperti dalle voci coinvolte del manipolo di ragazze.

Arrivo

Non sono mai stato una persona decisa, ma quando si profilava la classica occasione per combinare qualcosa d’interessante trovavo un briciolo di coraggio e mi attivavo. Così facevo a lavoro, così a casa, così ovunque.

Mi avvicinai e con delicatezza feci cenno all’improvvisata chitarrista, una bella ragazza mora, di lasciarmi lo strumento. Straordinaria fu la mia performance di “Sabato pomeriggio” al punto che attorno a noi si formò un gruppo consistente di persone che accompagnava la musica.

Il capo gita si fece allora sentire: “Signori, sull’autobus, si parte!”

E si partì.

Arrivammo a destinazione dopo circa un’ora.

C’era una grande confusione al Santuario, soprattutto nel piccolo mercatino di oggettistica sacra e souvenir antistante al tempio! Uno spettacolo che mi lasciò perplesso specie per il vocio delle trattative in corso che mi proiettò al ricordo delle casbah africane visitate qualche anno prima in un viaggio.

“Eh sì, a prima vista questo luogo ha ben poco di sacro!” mi dissi.

Noi tre amici stavamo uniti. E pedinavamo a distanza il gruppetto di ragazze che poco prima cantavano. Speravamo di entrare nel giro.

Entrammo in chiesa dove regnava un fresco incredibile nonostante la forte illuminazione naturale che entrava attraverso i vetri delle grandi finestre colorate. Il silenzio dominava. Varcata la soglia, eravamo entrati in un mondo insonoro. E questo mi stupì disponendomi subito alla concentrazione. Mi sentii come fossi solo. M’inginocchiai su una panca ed ebbi subito l’irresistibile desiderio di farmi un esame di coscienza.

Scorsi accanto a me una ragazza a capo chino, intenta a recitare un’ “Ave Maria”, Notai com’era presa e coinvolta ed ebbi scrupolo a profferire qualsiasi preghiera per cui ripetei solo a mente un “Padre Nostro”.

In chiesa

Come credente non ero mai stato granché nel senso che non frequentato le manifestazioni religiose ma a mio modo percepivo nella vita e in me stesso un senso di religiosità, un patrimonio di regole personali che si riconoscevano nella dottrina cristiana.

Nel frattempo l’organo della chiesa si mise a suonare, credo un’aria di Bach.

Con curiosità seguivo i movimenti della ragazza pedinando le espressioni del suo profilo di sconosciuta e giovane oratrice. Quando sollevò il volto, vidi che due lunghe lacrime rigavano le sue guance e soprattutto che si trattava della ragazza che poco prima aveva intonato con la chitarra le canzoni di Baglioni.

Lei si accorse che la osservavo e allora cercai di dirottare lo sguardo ma da quel volto affranto e triste trasudò per me un sorriso. Lo percepii intriso di una punta di amarezza come se qualcosa gli impedisse di manifestarsi liberamente. Poi la ragazza si alzò per incamminarsi verso la parte laterale del tempio ove regnava una fitta penombra. La seguii come un automa soggiogato dal suo profilo ancora umido di lacrime.

Placido e Pietro non si erano accorti di nulla e per me era come se non esistessero. Mi ero ritagliato un pezzo di realtà personale, dove esistevamo solo io, lei e il Santuario. Mi piaceva quel piccolo mondo,

Arrivammo in una piccola cappella buia, dove lei, fermandosi, si voltò indietro e mi guardò intensamente negli occhi.

“Si viene qua sempre per qualcosa, vero? Magari si parte solo per una gita ma, in effetti, si viene in posti come questi per essere aiutati in qualcosa che ci fa soffrire!”.

Pensai che ero in quel luogo solo così, per far qualcosa e che non avevo nulla d’importante da chiedere. 

“Sì, penso proprio che sia come tu dici!” ribattei.

L’altare

Lei si alzò dalla panca, dov’era inginocchiata, e mi fece cenno di seguirla; da dietro mi accorsi che era una ragazza alta, con lunghi capelli corvini e molto attraente e sensuale; poi mi censurai pensando al luogo dove mi trovavo.

La scarsa luminosità conferiva al suo viso un tono di profondità e una luce drammatica come se le sue lacrime spargendosi le avessero conferito la lucentezza di un dipinto di Rembradt. 

In fondo alla cappella c’era un altare sovrastato da un enorme Crocifisso. Ogni passo della ragazza ossequiava l’immagine sacra che emanava un senso di drammaticità misto a una calda intimità, come qualcosa di familiare che disponeva alla meditazione.

“Vedi”, disse la ragazza, “questo è l’angolo che amo di più; vengo qua per raccogliermi in preghiera; spesso sono io stessa che conio delle frasi, dei pensieri e vengo qua a recitarli, nel tempio del mio cuore”.

Ero a disagio in quella situazione, ma l’idea di allontanarmi non mi passò neanche un attimo per la testa; anzi mi piaceva particolarmente il suo tono di voce così calmo, in cui non c’era posto per elementi di disperazione e angoscia che invece trasparivano sul suo viso.

Si continua a morire

Quella ragazza che prima si dilettava alla chitarra con atteggiamenti banali, cominciava ad apparirmi un mistero, una realtà mistica che m’incuriosiva e verso cui sentivo una forte attrazione spirituale come mai mi era capitato.

“Qualcuno è morto per noi e molti continuano a morire in una catena senza fine”, disse. “Spesso nel mondo chi si presenta con amore è maltrattato e ucciso; chi invece elargisce odio e guerra riceve rispetto e invitato al potere del comando. Lui sta su una croce, a simbolo di tutti gli incompresi, i misconosciuti, i malati giudicati sani, i puri considerati inquinati… Lui sta lassù al posto di tutti gli uomini e di tutte le creature. Quando vengo qua, in quest’angolo del tempio, so che probabilmente rimarrò sola poiché la gente ama lo spettacolo, il clamore, e si sofferma solo a osservare la navata principale della chiesa col suo altare barocco intarsiato in oro e argento, il pulpito grandioso scolpito da mano sapiente dal quale il prete, la domenica, elargisce omelie e parole che incidono scarsamente sul tribunale interiore degli uomini.”.

Tante chiese

“Perché allora vieni qua?” dissi con rispetto. “Non è Dio in ogni luogo? Non posso credere che non ci sia un Crocifisso nella chiesa del tuo quartiere.”

“Si è vero, ma qui è diverso, qui mi portava mio padre quand’ero piccola; allora il Santuario non esisteva: a; c’era solo questo Crocifisso in una piccola grotta ricoperta di muschio, dove le persone portavano fiori e scrivevano frasi augurali; lì ho imparato a pregare. 

Pregare, sai, non è ripetere delle parole, delle frasi, siano esse belle, semplici o reboanti; la preghiera non è riportare poesie riprese dai libri o almeno non è solo quello. Pregare è disporre l’anima al trascendente, atteggiare la propria interiorità all’elevazione e alla fede per la vita nelle sue molteplici espressioni. 

Non occorre pensare, né parlare: è necessario solo avere consapevolezza che si è disposti alla preghiera, che si è umili di fronte alla vita perché essa stessa è una preghiera. Saper di far parte, di appartenere senza possedere o essere posseduti: questo mi ha insegnato mio padre, quando venivamo qua e stavamo ore senza parlare, solo a guardare questo simbolo.

La mia storia

Ascoltavo come rapito da un sogno.

“Qui talvolta ci fermavamo anche a mangiare, come fossimo a casa, e percepivamo la sua presenza, forte, anche fisica, in modo diverso da quando a tavola, prima di mangiare, si recita frettolosamente una preghiera di ringraziamento per quel cibo che ci si appresta a consumare. Quella piccola grotta, insomma, era la nostra seconda casa. E quando avevamo paura, come quando la mamma se ne andò, io e mio padre venivamo qua e la paura passava”

Mi guardò negli occhi, prima di riprendere.

“Per me questo Crocifisso è tutto, più di un simbolo, incarna la mia storia, il mio passato più remoto, il mio futuro più lontano. Personifica il mio presente.  Osserva i tratti del viso dell’uomo sulla croce, è una fisionomia tramandata dalle sacre scritture, tutti lo riconoscono, ma per me la forma non ha alcuna importanza perché in essa si trasfondono i volti di Gandhi, di Siddharta o di Papa Giovanni XXIII, di madre Teresa di Calcutta e talvolta io scorgo i lineamenti di Buddha o di Allah e persino di mia madre, gente speciale che ha sacrificato la propria vita per i fratelli. E il sangue che scende copioso dalle mani, dai piedi e dal costato è il sangue di tutti, specie degli sconosciuti che non sono nominati in nessun libro o in nessuna lapide, di quelli che si sono spenti nell’ignavia del mondo.”. LEGGI IL SORPRENDENTE FINALE