La visita blu
La visita blu-racconto di G. Fassari
Vado dal medico di casa raramente, diciamo ogni due-tre anni, la mia salute per fortuna è buona; soltanto qualche piccolo dolore alla schiena, forse reumatismi, poi nulla, neanche un’influenza, una tossettina, nulla di nulla. Per questo è sorprendente che io sia qui oggi: da una settimana avverto un fischio all’orecchio destro che finisce con un dolore rapido e lancinante. Potrebbe essere un’otite ed è bene fare un controllo.

La sala d’aspetto del medico è misera, con quadri di stili e gusti diversi alle pareti: al centro di una spicca un “E’ gradita la mancia all’infermiera”. E poi tante sedie di almeno tre forme diverse; qualcuna è rattoppata alla meno peggio. Al centro della sala un basso tavolino in vimini sfilacciati ricoperto da un disordine di giornali di qualche anno fa e copie varie di quei bollettini che arrivano ai medici ma che non saranno mai letti.
Il tempo passa. La gente lo ammazza a chiacchierare e, a quanto vedo, l’argomento preferito è la salute. In nessun altro posto come le sale d’aspetto dei medici, si parla tanto di salute e così a sproposito: c’è chi parla di cure miracolose che gli hanno fatto superare un problema vecchio di trent’anni, c’è chi ha trovato il modo di bloccare la caduta dei capelli grazie a una lozione di una certa pianta… e c’è chi…
Poi si parla della qualunque, di spesa, di politica spicciola, di moda, di tv, di telenovele, talvolta anche delle corna nel jet-set ecc. E il guaio è che non puoi non ascoltare: sei lì, hai preso il turno, non puoi mollare, devi tollerare. Anche che ti scavalchi il raccomandato dell’infermiera e quei maledetti informatori scientifici.
In attesa
Comunque, anche se lento, il tempo passa, accompagnato da una serpeggiante sonnolenza che in qualche momento si trasforma in sonno e in sogno, il sogno di esserne fuori.
“Sono stati almeno dieci i pazienti prima di me” penso. “Tra due, tre al massimo, sarà il mio turno, finalmente”.
In un momento di lucidità, in sala, constato che il vocio si è notevolmente abbassato col ridursi delle persone e che siamo rimasti in pochi, tutti i più giovani. Ricordo bene che c’erano numerosi vecchi, anche malandati, fino a poco fa…
“Dove sono finiti?” mi chiedo.
Di certo inghiottiti nel gabinetto del dottore, uno a uno, ma quando ne erano usciti? Non ricordo di averli visti passare e pensai che lo studio avesse una seconda uscita. E in ogni caso che cosa importava? L’essenziale è che sbrigarmi presto, star qui è tempo sprecato e il disturbo all’orecchio non si è più presentato da quando sono arrivato. Come a dire scomparso!
Finalmente è il mio turno. Busso alla porta dello studio.
“E’ permesso ?” chiedo con educazione.
“Avanti, si accomodi!”fa la voce dall’interno.
Entro in una piccola saletta con un lettino e colma di strumentazioni, una bilancia, un monitor, penso un ecografo, una serie di ferri e tanto altro; tutto disposto in gran disordine e coperto da uno spesso strato di polvere che mi lascia perplesso, anzi mi turba. Ricordavo l’ambiente lindo col suo odore fresco di essenze floreali e lo ritrovo sporco con un leggero odore di pesce marcio nell’aria. Mi pizzica al naso.
Questi furono i miei pensieri nei secondi che trascorsero per arrivare al cospetto del dottore.
Il caro dottore
All’istante la mia sorpresa si condì di un malsano senso d’inquietudine; il caro dottor De Vita mi stava davanti, ma era davvero lui? A osservarlo bene sì, ma con tanti anni in più, invece dei suoi quarantacinque-cinquanta, infatti, ne dimostrava non meno di settanta-ottanta. Era completamente bianco e fortemente dimagrito, direi rinsecchito da far paura; se ne stava con aria pensante e con la testa poggiata sul palmo della mano destra erta su una lurida scrivania.
Mi osservava in silenzio.
Volevo scappare, sarei scappato, ma mi trattenni non appena udii la sua voce.
“Era da molto che non si faceva vedere signor Juvenilia…” disse. “La sua salute non crede in me?”
Mi sedetti. Sentivo il cuore battere veloce e abbozzai un sorriso di sopravvivenza, il massimo parto del mio imbarazzo.
Il suo sguardo
Il dottore mi guardava con i suoi occhi spenti, emergenti da profonde occhiaie.
Parlava lentamente come sottoposto a uno sforzo disumano.
“Eh, sì, lo so, lei è così giovane. Per questo qui viene di rado, una-due volte l’anno e sempre per piccoli acciacchi, dolorini, fastidi di poco conto” profferì. “Eh sì, il suo è un corpo sano ed efficiente dove i processi metabolici si svolgono entro un progetto perfetto e il risultato del buon funzionamento dell’ingranaggio è una bella qualità di vita! Ma lei lo sa cosa accade col tempo? L’orologio comincia a perdere qualche colpo, diciamo ritarda di pochi secondi, di attimi, ma poi essi si sommano, uno dietro l’altro, formando una montagna altissima fatta di attimi uno sull’altro e cominci a perdere minuti, poi ore, giorni, lustri e infine perdi la vita!”
Nel dire le ultime battute, gli occhi del dottore scintillavano di una vitalità inaspettata.
“Dove sono capitato, sono sul set di un film di Bela Lugosi o di Vincent Price?” pensai. “Non sono mai stato un fifone ma non mi sentivo bene, un senso di inquietudine si era fatto spazio nelle viscere facendomi mancare le forze. Da sempre nei discorsi di salotto avevo sostenuto come anche nella vita più semplice, nella routine, il mistero ci cammini accanto senza che ce ne accorgiamo, ma arrivare a una paura come questa, non me lo sarei mai sognato!”
La paura mi aveva ammutolito eppure qualcosa mi diceva di parlare, di qualsiasi cosa ma di parlare.
“Mi scusi, dottore, ma la sua salute, piuttosto, come procede?” domandai. “Sa, per la verità la trovo, come dire, un po’ sciupato?”
“I miei geni…”
Il vecchio abbozzò un sorriso amaro, poi con voce roca continuò: “Vede, la mia è la salute tipica della mia età. La quarta età è così, diventi un relitto e non servi più a nulla; la società ti scarta, la famiglia ti considera un peso quando non ti abbandona, l’amore, se lo hai vissuto, resta solo un ricordo, i malanni ti tartassano e a poco a poco perdi la memoria, la vista, l’udito, l’olfatto, in poche parole l’autonomia; dipendi dagli altri anche se devi andare in bagno.”
“La comprendo dottore” esclamai. “Cosa vuole farci, è la vita!”
“Eh sì” proseguì. “Se poi considera che ognuno di noi ha fissato geneticamente, nel suo DNA, la longevità individuale, lei comprende che i margini di autogestione del patrimonio vita diventano veramente ristretti, per noi esseri umani. Ecco, nei miei geni, purtroppo, c’era scritto che non vissuto a lungo la maturità, che io dovevo divenire subito vecchio, una sorta di particolare forma di morbo di Alzheimer. Ne avrà sentito parlare, credo…”

Il contributo di un medico
Il dottore si alzò lentamente e con grande fatica, come se il suo corpo rappresentasse un peso insostenibile, e mi fece cenno di seguirlo verso la parte profonda della stanza dove stava una grande tenda in velluto blu.
“Quello che ora le farò vedere rappresenta il mio modesto contributo di medico, alla lotta alla sofferenza e alla sua figlia estrema, la morte” disse con voce emozionata. “Non mi potevo più accanire contro la nera signora poiché all’uomo è preclusa la vittoria di questa guerra, ma ho trovato il modo di ridurre la sofferenza e di distribuire in modo equo malattia e dolore, salute e gioia, agli uomini evitando le ingiustizie e le disparità che talvolta i geni distribuiscono all’umanità. Quello che l’ingegneria genetica sta oggi avviando tra diatribe e polemiche sull’etica della manipolazione, io nel mio piccolo l’ho affrontato e risolto!”
Le argomentazioni del dottore si facevano sempre più interessanti tanto che le mie ansietà si erano notevolmente ridotte lasciando il posto a una curiosità incredibile.
“Come l’ha risolto?” – dissi con timore verso la risposta o le realtà che il dottore mi avrebbe potuto prospettare da lì a poco.
Il dottor De Vita con mano veloce afferrò la lunga tenda blu e la tirò con forza da una parte sollevando una nube di polvere e dando spazio a una folata fetida di quel puzzo di pesce marcio che avevo sentito all’ingresso nello studio.
Tutto era buio.
Avevo paura del silenzio assoluto e di quel puzzo.
Si accese una luce e vidi che oltre la tenda c’era una grande sala con numerosissimi letti matrimoniali.
La luce aumentava ed era bluastra. Non era granché e si vedeva a stento. Mi accorsi comunque che solo pochi letti erano occupati.
Aspettavo con ansia che il dottore mi desse spiegazioni su quella situazione irreale.
Osmosi
Con voce roca quasi in via di esaurimento riprese a parlare.
“Vede, forse in questo mio progetto c’è un briciolo d’insanità mentale” raccontò. “Lei deve sapere come per me fosse impraticabile la strada intrapresa dal dottor Faust poiché credo nella vita oltre la morte e anche in questa vita terrena e materiale, la mia anima non può e non potrà mai essere merce di scambio. Per questo ho creato questi letti di solidarietà; ognuno ospita due persone che, se guarda bene hanno età diverse: una è giovane, almeno maggiorenne per deontologia, l’altra è vecchia, almeno ottantenne. Ho trovato il modo di attuare uno scambio osmotico tra loro: ognuno dà all’altro quello che ha in eccesso e prende quello di cui è carente: un’applicazione del principio dei vasi comunicanti in termini di energia vitale.”
Ero allibito.
“Li collego attraverso una via emo-linfatica che porta sangue, linfa e ormoni, e una neuronale, che attiva nell’anziano le aree della corteccia cerebrale responsabili dei processi cognitivi e creativi ormai, affievoliti dall’usura del tempo. Si tratta di una sorta di trapianto di giovinezza. Non pensi a uno scambio unilaterale ed egoistico, perché, vede, il giovane ne guadagna in maturità ed esperienza, acquisendo schemi comportamentali e modalità di reazione agli input esterni e interni assolutamente validi, scevri dai difetti d’impulsività tipici dell’immaturità. Certo non si aspetti di assistere a una metamorfosi fisica perché quella, anche se c’è, è modesta rispetto ai grandi benefici neurofisiologici e metabolici che ottengo.”
Il metodo
Ero frastornato ma assentii chinando la testa.
“Ancora purtroppo la metodologia non è perfetta e i risultati hanno breve durata, dell’ordine dei due-tre mesi” continuò il dottor De Vita. “Conto di riuscire ad allungare questo tempo a dieci-ventanni. Ecco vede, lì, -e così dicendo indicò un letto posto in una zona in ombra- c’è stata una complicanza…”
Mi avvicinai ai piedi del letto e assistetti a un evento che mi sconvolse al punto che pensai di essere pazzo. Sul letto giaceva un corpo informe, delimitato dal pigiama, una massa fangosa emanante un lezzo di pesce marcio: Si vedevano ancora ciuffi di capelli bianchi e qualcosa che doveva essere un paio d’occhiali.
“Vede, giovane amico” disse il dottore quasi con rassegnazione. “Questo vecchio ha vissuto benissimo e in salute per quasi tre mesi e mezzo, ma poi… plop ed è dovuto rientrare alla base, finito in una masserella informe!”
“Dottore, ma è mostruoso!”-dissi perdendo il controllo.
“Cos’è che vede di mostruoso in tutto questo, mio giovane amico, che cos’è la morte di qualche soggetto, per giunta vecchio, rispetto alla chiave del dolore? Mi dica allora come giudica lei le empietà compiute dal genere umano. Ricorda l’olocausto? Dov’erano i suoi nonni e dov’erano i principi e la civiltà quando dai camini dei mattatoi nazisti fuoriuscivano i fumi di persone cancellate, e dov’era lei quando i bimbi jugoslavi morivano sotto i mortai nemici, forse al cinema o magari a far l’amore con la sua ragazza? Senza parlare degli eccidi atomici, di Hiroshima, o dei tanti morti che l’alcool e le droghe fanno con i loro nefandi effetti?”
Il database
Il dottore era un fiume in piena. Rischiava di sommergermi.
“Sbaglio o sigarette e superalcolici sono autorizzati dallo stato e servono addirittura per sostentarlo? Non sia troppo moralista, caro Juvenilia, magari sua madre ha fatto diversi aborti e lei stesso con i suoi rifiuti inquina l’ambiente uccidendo inermi creature. E allora mi dica lei cos’è mostruosità?” LEGGI L’INCREDIBILE FINALE